GUSTAVO ZAGREBELSKY E LA DOMANDA DI QOHELET - CALABRIAPOST

2021-12-27 12:18:29 By : Mr. Jason He

La domanda di Qohelet: Val più un asino vivo che interroga un dottore morto?

“His amplius, fili mi, ne requiras: faciendi plures libros nullus est finis, frequensque meditatio carnis afflictio est” (Guardati, figlio mio, da quanto va oltre: non v’è fine alcuno a far molti libri, e molto studiare è fatica alla carne - Ecclesiaste: 12, 12), viene maccheronicamente rievocato dallo “Studere, studere, post mortem quid valere?”, a complemento del "Melior est canis vivus leone mortuo" (9, 4). Il detto: “Chi muore giace, chi vive si dà pace” proviene invece dalle “Poesie” di Giuseppe Giusti (“Il morto giace, il vivo si dà pace”). “Il male è per chi va, chi campa si rifà”, o “Chi piange il morto, indarno s'affatica”, conducono alla conclusione che, insomma, la vita deve andare avanti comunque. “Chi non può viver dopo morto, non è mai vissuto” sembra un mero rimprovero agli sfaticati. E “Chi vien dalla fossa sa che cos’è la morte” rientra tra le tante frasi fatte, bell’e pronte come prêt-à-porter, ed espressioni idiomatiche sconfinanti nei “proverbi”, che dovrebbero invece esprimere un’antica e consolidata saggezza popolare (in ebraico, Mëshalim vuol dire: tradizione); avendo perso l’originario significato letterale, sarebbero divenute dei clichés, stereotipi modi di dire, costrutti adattabili secondo il contesto.

Cosicché, chi indica Qohelet come “Vecchio” ne evidenzia l’umore senile, in contrasto con quel giovanile furore erotico (La donna invita l'uomo a entrare nel suo giardino chiuso a chiave per assaggiarne i frutti e "ubriacarsi d'amore") del Canticum Canticorum,  ᾎσμα ᾈσμάτων (ásma asmáton), Shìr hasshirìm, ovvero quello più equilibrato e meditabondo della maturità dei Prouerbia, Παροιμίες (paroimíes), Mishlèy (perché non è necessaria la ricchezza ed è importante essere onesti, quando è meglio stare in silenzio, ecc.). In età avanzata, l’autore di questi testi (sempre che d’un unico autore si tratti, e sempre un improbabile figlio di Davide) dispensa regole prudenziali per rendere sopportabile il vuoto dell’esistenza.

Qohelet è participio presente femminile del verbo qahal, animare, quindi “animatrice”, nel senso della “funzione”, che i Settanta tradussero Ekklesiastès, ovvero “partecipante alla convocazione”; mentre Plutarco questo termine lo rese in modo duplice per indicare la forma dialettica dell’atteggiamento contraddittorio di chi, in qualità di maestro retore (che offre spiegazioni di fronte a un uditorio), ovvero predicatore (concionator, chi arringa, o prende la parola), si pone da solo dei quesiti ai quali poi cerca di dare delle risposte plausibili. V’è in ciò un’onnipresente epoché (ἐποχή) iterativa con slittamento della domanda pregiudiziale in quella successiva che opera uno scarto di valore dalla direzione dell’agire: e il significato d’ogni cosa s’arresta nella capacità o incapacità d’un’autodeterminazione?

Può essere davvero molto sottile la differenza tra precetti, aforismi, massime, apoftegmi, in grado di ricondurre tuttavia allo stesso contenuto, mentre i modi di dire dalla predicibilità semantica possono correre il rischio d’approdare, se non proprio a delle parodie, a quei calchi linguistici pronti a offrire prestiti alle lacune lessicali.

Come s’espresse, nel 1907, il filologo Karl H. Johannes Geffcken, a proposito dell’Epistola a Diogneto: «… soddisfacendo l'esigenza del momento, raccoglie in forma aggraziata ogni genere di luoghi comuni.», disprezzando malaccortamente la paradossale differenziazione tra l’«appartenenza a» e la coscienza d’«essere nel mondo».      

“Nihil sub sole novum” (Ecclesiaste: 1, 10)

Ciò che ci ha preceduto non può mostrarsi una novità; “ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà” riesce effettivamente a misurare la distanza tra la differenza supposta e quella reale delle nostre aspettative, o suona ormai quale argomento scontato, in un esercizio eristico (da ερίζειν, polemizzare), ed entimema (ἐνθύμημα, dissertazione tratta da premesse probabili), troncato o apparente?

La sera del dì di festa

Leopardi avrebbe ripreso quella solitaria espressione, successiva rispetto ai moti terrestri, ma anticipatrice del giudizio riguardante “le opere e i giorni” ( Ἔργα καὶ Ἡμέραι, Erga kài Hemérai esiodeo) degli uomini, a conclusione del “Quod fuit, ipsum est, quod futurum est. Quod factum est, ipsum est, quod faciendum est:” (Eccl. 1, 9), ne “La sera del dì di festa” (1818-21): “Non v’è alcuna memoria delle cose che sono state innanzi: così anchora non vi sarà memoria delle cose che saranno nel tempo a venire, fra coloro che verranno appresso”.

Altrove, “Omnia tempus habent, et momentum suum cuique negotio sub caelo…” (Ogni cosa ha la sua stagione, e ogni azione sotto il cielo il suo momento… - 3, 1), vagheggia, forse, d’una libertà responsabile o dell’apertura heideggeriana dell’Esser-ci umano all’essere-nel-mondo, d’un’Ananke (Ἀνάγκη), necessità potenzialmente creativa, oppure del kairos (καιρός), opportunità da cogliere, di cui i beckettiani Vladimir (Didi) ed Estragon (Gogo) stanno inutilmente attendendo l’avvento?

“Segui il tuo cuore, fintanto che vivi!”

“Segui il tuo cuore e la tua felicità, / compi il tuo destino sulla terra”. È l’invito del faraone Antef II (Hor Wah-ankh della XI dinastia), nel “Canto dell’arpista”; in seguito, sembra aggiungere, prendi ogni “precauzione magica”, avendo cura principalmente della tua sepoltura. E Hor Wah-ankh scelse una tomba ipogea della necropoli di el-Tarif, sulla riva occidentale del Nilo, presso Tebe.

Nessuno viene di là, che ci dica la loro condizione

“Periscono le generazioni e passano,/ altre stanno al loro posto,/ dal tempo degli antenati:/ i re che esistettero un tempo/ riposano nelle loro piramidi,/ son seppelliti nelle loro tombe/ i nobili e i glorificati egualmente./ Quelli che han costruito edifici,/ di cui le sedi più non esistono,/ cosa è avvenuto di loro?/ Ho udito le parole/ di Imhotep e di Hergedef,/ che moltissimi sono citati nei loro detti:/ che sono divenute/ le loro sedi?/ I muri sono caduti/ le loro sedi non ci son più,/ come se mai fossero esistite./ Nessuno viene di là,/ che ci dica la loro condizione,/ che riferisca i loro bisogni,/ che tranquillizzi il nostro cuore,/ finché giungiamo a quel luogo/ dove sono andati essi./ Rallegra il tuo cuore:/ ti è salutare l’oblio.”.

Ribadisce il concetto del “momento per ogni cosa”: a volte occorre ricordare, altre volte saper dimenticare.

Tramonta il sole e per un po’ scompare, ma la vita sulla terra tramonta per sempre. “Vedi, non c’è chi porta con sé i propri beni, / vedi, non torna chi se ne è andato”.

La richiesta agli osservatori da parte delle immagini di ricostruirne il significato è un argomento per interpretare l’evoluzione rappresentativa dell’entimema visivo da sillogismo persuasivo a incompleto ed ellittico, o imperfetto nella sua espressione?

Esempio di calco linguistico dall'ebraico havel havalim (nei Septuaginta: ματαιότης ματαιοτήτων), nel linguaggio biblico, questo tipo di iterazione assume valore superlativo (Sancta sanctorum, cantico dei cantici, o "canzone delle canzoni", "canzonissima"), mentre, in pittura, si risolve in un ammonimento all'effimera condizione dell'esistenza: “Finis gloriae mundi”, “Et in Arcadia ego” …

Questi “memento mori” si concretizzano nel topos (τόπος) d’una “natura morta” dagli elementi simbolici allusivi al tema della caducità, che - soprassedendo sul manierismo sconcertante (Vexierbilden), degli “Ambasciatori” di Hans Holbein il Giovane – possono variare tra clessidra, teschio, candela spenta, strumenti musicali inutilizzati e perciò silenti, fiori spezzati, frutta in via di marcescenza – per esempio la celeberrima mela bacata nella “Canestra” del Caravaggio.

“… Come è il frutto di Sodoma, tale è la vanità: quello ha uno splendido aspetto e a chi lo vede offre all’apparenza l’impressione di frutti sani. Ma se prenderai in mano una melagrana o una mela, cede subito sotto le dita e la buccia che l’avvolge di fuori, disfattasi, le lascia cadere in polvere e in cenere. Qualcosa di simile è pure la vanità: alla vista sembra essere qualcosa di grande e ammirevole, ma presa dalle nostre mani fa subito cadere in cenere la nostra anima.” - scriveva l’eloquente retore omiletico San Giovanni Crisostomo.

Nel rapporto tra chi guarda e chi, o cosa, è visto, la parte attiva appartiene a quanti impegnano i propri sensi a cercare di captare ciò ch’è degno d’attenzione, d’eccitazione, di meraviglia e financo d’orrore: tutto fa specie, tutto fa apparenza, e pure spettacolo. E i sensi non si limitano al classico quinario percettivo, poiché strumenti d’ulteriore sensualità sono le attitudini a riceverle queste impressioni (sensibilità), a elaborarle col pensiero, a lasciare ch’esse modifichino lo stesso nostro umore e ci predispongano, in base a questa ricettività, al piacere o al disgusto. È dunque l’osservazione che illumina la luce che promana dagli oggetti?

A non dimenticare la fine di tutte le cose terrene c’era anche il tema iconografico della Chorea macabæorum o Danse Macabre, che cominciò a essere rappresentata, con rievocazioni rustiche e mascherate di corte, da persone travestite da cadaveri esponenti dei vari strati della società, durante le festività di Ognissanti, ovvero Allhallowtide, all'origine della posteriore tradizione di Halloween - e delle pratiche del souling (raccolta dell’obolo per i defunti), mumming (recita di filastrocche), guising (senza farsi riconoscere). Secondo la leggenda seguita da Camille Saint-Saëns, la morte riappare ogni anno alla mezzanotte (segnata da una nota “re” ripetuta dodici volte) per invitare gli scheletri, con un Tritono (o Diabolus in Musica, “la” e mi bemolle), a ballare al suono del violino. Il murale andato perduto sulla parete meridionale del cimitero parigino dei Santi Innocenti, dipinto durante la reggenza del duca di Bedford, terzogenito di Enrico IV d'Inghilterra, per via della sua enfatica inclusione d’un monarca incoronato da morto, in un momento in cui la Francia non ne aveva alcuno, potrebbe avere avuto un sottile sottotesto politico.

Venite ad me, qui onerati estis

La serie di xilografie con Danza della morte (1523-26) di Hans Holbein il Giovane rimodellava l'allegoria tardo-medievale della danza macabra come satira “riformista”, in un graduale passaggio dal cristianesimo tradizionale, cattolico, a quello riformato. “Simulacri” cadaverici piombano su “simulazioni” di vita in ossequio al passo di Matteo: "Venite ad me, qui onerati estis." (11,28), reso sarcasticamente nell’italiano: “Non ti spiaccia venire con me, se hai voglia di riposo.”.

Ispirato al motto astrologico di Marco Manilio «nascendo morimur», il Cupidon endormi del Genovesino, Luigi Miradori. Poiché nati moriremo, e moriamo sempre un po’ da quando siamo venuti al mondo. A questa particolare tipologia di dipinti appartengono L’Amour endormi sur un crâne di Pieter Moninckx, Niño Jesús dormido di Cornelio Schut, Homo bulla est di Kreis des Hans von Aachen.

La fine dipende dall’inizio

“Liberate i vostri animi, o mortali, alleviate gli affanni, svuotate la vita di tanti, inutili lamenti. I fati reggono il mondo, tutto è determinato da leggi precise, e le lunghe età sono segnate da vicende prestabilite. Nascendo moriamo [nascentes morimur] e la fine dipende dall’inizio” (Astrononicòn, Proemio del libro IV, 12-16).

Per Marco Manilio, è la scienza che rivela all’uomo il proprio destino, in quanto: “conosciamo abbastanza la natura, possiamo penetrarvi fino in fondo, impadronirci del cielo che ci dà la vita, muoverci fra gli astri, noi che dagli astri fummo originati”. Una scienza che diviene professione di fede nella sua intima elaborazione poetica: l’uomo soggiogato dal destino, nel penetrare i segreti della natura, ridiviene padrone di sé stesso, per via della nuova sapienza acquisita e non già perché possa mutare la propria fortuna.

Il timore della morte non riguarda soltanto un ignoto futuro, molto di più la perdita di cose ben conosciute e che magari vorremmo continuare a sperimentare: passioni, desideri, fascinazioni. È la mancanza di progettualità a incrementare un’insaziabile fame di prosieguo, sconvolgendone il gusto esistenziale. “Silvia, rimembri ancora/ Quel tempo della tua vita mortale, / Quando beltà splendea/Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / E tu, lieta e pensosa, il limitare/ Di gioventù salivi?”.

Cercare ciò che s’è perso…

Sotto il Sole (“sub sole”), il bene e il male si succedono instancabilmente “usque ad mortem”, come per non lasciar spazio all’assenza di vita. Continuamente si vive alla ricerca di ciò che s’è perduto, ma si trova non “qualcosa che”, bensì “come” ci si è persi. Anche questa, una risposta sotto il segno della falsa sicurezza d’una domanda sorta in un απαίδευτος, apedeuta, che non abbia ricevuto un'istruzione adeguata o in un Socrate riflessivo sul "metodo" della definizione e dell’induzione (ἐπαγωγή)?

Nell'Antirrhetikos (ἀντιρρητικός, che confuta, refuta) di Evagrio Pontico la vanagloria veniva accorpata alla superbia, alla stregua della tristezza, accomunata all’accidia, e l’anima dell’apatico ne risulta “abbattuta”.

Il vuoto della vanità potrebbe essere riempito in vari modi; uno dei più perversi è con un abbandono all’empietà.

“Se Dio e l’immortalità dell’anima non esistono, tutto è possibile… se si distrugge nell’uomo la fede nell’immortalità subito si inaridirà in lui non solo l’amore ma ogni forza vitale. Allora niente sarà immorale, tutto sarà ammesso, persino l’antropofagia” proclamava l’Ivan Karamazov di Fëdor Dostoevskij.

In alternativa, s’affaccia persino la schiettezza del grande coraggio di credere nel nulla. E quale fede può paradossalmente essere più pura, o altrimenti non essere, come dubitava l’esegeta biblico Sergio Quinzio.

«Sono rimasto quello che ero, con il mio obbediente adeguarmi alla situazione, nella consapevolezza dell'impossibilità di cambiarla nel senso decisivo che sento indispensabile, con la mia sorridente disperazione, con la mia, giustamente, sempre più stanca e confusa confusione» (Diario profetico, 1958).

Un vero trambusto o un’infinità di storie e storielle?

In slavo суета (sueta), si può tradurre sia “vanità” (vuoto, senza valore), sia “trambusto” (fretta), come pure polverone, confusione, o “tante storie”. La suggestione suscitata dal titolo “Суета сует” (Sueta suet, Trambusto dei trambusti, che riecheggia quella Vanitas vanitatum, ματαιότης ματαιοτήτων, havel havalim, dell’Ecclesiaste: 1, 2; 12, 8) della seconda parte del romanzo di fantascienza Понедельник начинается суббота (traslitterato: Ponedel'nik načinaetsja v subbota, in italiano: “Lunedì inizia sabato”, pubblicato nel 1965) dei fratelli Arkadij e Boris Natanovič Strugackij (autori, tra l’altro, di È difficile essere un dio e Picnic sul ciglio della strada, che in italiano ha assunto lo stesso titolo della trasposizione cinematografica di Andrej Tarkovskij: Stalker) può considerarsi un approccio “laterale” a una rilettura della classica “vanitas vanitatum, et omnia vanitas”?

Si scrive per non essere letti?

Forse sì, specie se si considera che quelli che s’affermarono durante gli anni del cosiddetto “disgelo” promosso da Nikita Chruščëv, come "Gli Strugatskij", in seguito, a causa della censura, scrissero direttamente per sé stessi («Scrivere per il cassetto della scrivania, in modo tale che non venga pubblicato, ma anche che non ci sia alcun motivo per essere arrestati»), senza alcuna speranza di essere editati, arrivando a tenere per ben due decenni in quel “cassetto” (роман написан в столь, roman napisan v stol, romanzo scritto come tale) Град обреченный, (“Grad obrečennyj”, La città condannata).

La “tristezza di non essere santi”

Una rilettura dell’Ecclesiaste, nella snella traduzione di Guido Ceronetti (“A tutto quel che accade sotto il sole/ un senso l’uomo non riesce a dare./ Lì sopra gli uomini si affaticano/ Senza poter trovare/ E il sapiente che dice di sapere/ Neppure lui ha trovato…”; invece di : … omnium operum Dei nullam possit homo invenire rationem eorum, quae fiunt sub sole; et quanto plus laboraverit homo ad quaerendum, tanto minus inveniet; etiamsi dixerit sapiens se nosse, non poterit reperire – 8: 17), risentirebbe forse, allora, di quella sua personale indole malinconica, suffragata da altre meditazioni: «Tutto è dispersione, lacerazione, separazione, rotolare di ruota senza carro, e questo ha nome esilio, o anche mondo» (“Tra pensieri”, 1994), oppure della disposizione alla parafrasi, e pertanto di quella “tristezza di non essere santi” - come titolava l’edizione italiana d’una crestomazia di scritti di Léon Bloy (1846-1917), il quale, in “Exégèse des lieux communs” (1902-1912), espresse tutta la perplessa difficoltà della fede: «La creazione lascia molto a desiderare. Anzi diciamo pure che è fallita e abborracciata. Dio non ha fatto quello che ci si aspettava; un operaio che lavorasse come lui non resterebbe per sei giorni in officina.» -?

Ceronetti è tornato a tradurre Qohélet ben tre volte (dal 1955 al 1970, e al 2001) e «proprio qui, in mezzo agli itali omnes athei, visceralmente antibiblici (per buone ragioni, chissà: chi può giudicarne)». Sempre più ha scavato quell’aspro linguaggio verso una concretezza corporale delle cose, secondo l’«espressionismo» del Dante più materico, lontano dalla sublimazione delle parole dei parolai; «soffio che ha fame» per «fiato sprecato», «gineceo di tette» per «serraglio di spose», «fumi» per «vuoto», e poi «trangugia», «scataratta», «zuffa» …

Ceronetti non fu solo "Inquieto dell'anno" 2012, perché analizzava continuamente il problema del male nel mondo odierno in una prospettiva gnostica e, ricorrendo a uno stile tra l’aforistico, il memorialistico, il filosofico e il satirico, spargeva sensazionali definizioni anticonformistiche sugli argomenti più scottanti, dall’immigrazione all’omosessualità, tanto da guadagnarsi l’appellativo di "reazionario postmoderno" (“Ti saluto mio secolo crudele. Mistero e sopravvivenza del XX secolo”, 2011).

Da patriota “conservatore”, illustrò l’Italia come «una democrazia strangolata sul nascere da tre poteri con il verme totalitario, democristiano, comunista e sindacale».

Quasi fosse un moderno e sensibile anacoreta, aderiva a un regime dietetico assai frugale, da ambientalista e vegetariano convinto, praticante l’arte di vivere senza eccessi, à la Montaigne.

«Non essere né troppo giusto né troppo malvagio!» non equivale proprio a: “Noli esse nimis iustus neque sapiens supra modum!” (- 7,16), che, alla stregua del “Noli esse iustus multum” di Agostino rappresenta piuttosto una condanna d’estremismo, fanatismo e pure del giustizialismo, tipo: “Fiat iustitia et pereat mundus” (attribuito a Gaius Cassius Longinus, in Svetonio, Cesare, 2)!

La teologia di Karl Barth avrebbe introdotto un elemento di relatività nel regno della verità e del bene che, “sotto il sole”, in terra, può solo essere tendenziale. L’equilibrio si otterrebbe con un semplice cambiamento della congiunzione copulativa onde costituire finale la seconda proposizione: “Fiat iustitia ne pereat mundus” (Georg Hegel).

Non trarre gusto dalla frollatura

«Solo un vero vegetariano è capace di vedere le sardine come cadaveri e la loro scatola come una “bara di latta”; un mangiatore di carne (non mi sento di scrivere «un carnivoro» perché l'uomo non è un carnivoro) neanche se lo chiudono nel frigorifero d’una macelleria avrà la sensazione di coabitare con dei cadaveri squartati. C'è come un velo sulla retina dei non vegetariani, quasi un materializzarsi d’un velo sull'anima, che gli impedisce di vedere il cadavere, il pezzo di cadavere cotto, nel piatto di carne o di pesce.» (“Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina”, 1979).

Inaugurò poi l’itineranza del suo Teatro dei Sensibili con la rappresentazione della leggenda del macellaio antropofago che confezionava salumi utilizzando la carne delle sue vittime femminili (La iena di San Giorgio), e ciò dopo aver definito il suo miglior amico rumeno Emil M. Cioran: "squartatore misericordioso"!

Il linguaggio impiegato da Ceronetti è destinato a turbare, mostrando pure però d’avere il potere di mondare ogni lordura; inavvertitamente inonda l’anima come se sgorgasse direttamente da una fonte edenica. Ha inteso l’«Ecclesiaste» quale “dramma carismatico” della vanità delle cose umane su cui riflettere senza perseguire un ragionamento ordinato, bensì attraverso aggiunte, ripensamenti, più che osservazioni e sentenze.

“Two is megli che uan”

Un solo, semplice, varco al sentimentalismo nell’umile considerazione sulla coppia: “Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadere, l'uno rialza l'altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se due dormono insieme, si possono riscaldare; ma uno solo come fa a riscaldarsi?” (Melius est duos esse simul quam unum: habent enim emolumentum in labore suo, quia si unus ceciderit, ab altero fulcietur. Vae soli! Cum ceciderit, non habet sublevantem se. Insuper, si dormierint duo, fovebuntur mutuo; unus quomodo calefiet? - 4: 9, 11).

“Godi della vita, con la donna che ami, tutti i giorni della tua vanità, che ti sono stati concessi sotto il sole per tutto il tempo della tua precarietà: ciò è infatti parte dell’esistenza e della fatica che t’affligge sotto il sole” (Perfruere vinum cum uxore quam diligis, cunctis diebus vitæ instabilitatis tuæ, qui dati sunt tibi sub sole omni tempore vanitatis tuæ: hæc est enim pars in vita et in labore tuo quo laboras sub sole. – 9,9) pone il quesito della similitudine, o della differenza, tra il “perfruere vinum” (tradotto qui con “godimento della vita”, pure quale giusta retribuzione alla fatica umana) di Qohelet e l’assenza di bevande alle nozze in Cana Galileae (Giovanni 2, 1-12), che richiede un intervento divino. La risposta, forse, nella prima Epistola di Giovanni: “Qui non diligit, non novit Deum: quoniam Deus charitas est.” (Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è χάριτας”, 4:8): incondizionata gratitudine per concessione ricevuta, o benevolenza priva di obbligazioni?

Il riverbero di quella “Vox clamantis in deserto” (Marco 1, 1-3; Giovanni 1, 22-23), che però non “appiana nella steppa la strada per il Signore” (Isaia 40, 3), va dunque proiettata sull’infinito per provare a misurarne la grandezza, pur senza potervi riuscire, dopo aver attraversato incautamente e inutilmente quegli “inabitati, ermi e selvaggi”, descritti dall’Ariosto?

Terra non frequentata da savi

Come Orlando, gli uomini diventano “furiosi” per non riuscire a ottenere quei futili desideri in cui si nascondono e che sono destinati a finire sulla Luna e a non essere mai più ritrovati. Per recuperare il senno “supra modum” del cugino, accecato dall’amore per Angelica, il paladino Astolfo ripercorre, a cavallo del suo Ippogrifo, e accompagnato da San Giovanni Evangelista, un po’ tutte le tappe del classico “viaggio iniziatico”, dalla discesa agli inferi all’approdo immaginifico sul nostro satellite, che per questo rispecchia il pianeta a cui è legato, accogliendo quanto sulla Terra è andato disperso: "ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai." (XXXIV, 70.75); adulazioni e lodi, inane aspirazioni, speranze illusorie, lacrime e sospiri degli amanti, preghiere e voti a Dio, fama, ozio, progetti mai messi in pratica, tempo dedicato al gioco e all’azzardo, e sottratto a qualcosa di più utile e significativo. Solo la pazzia non si trova sulla Luna, perché a ospitare i folli è giusto la Terra, dove non abita nessuno di totalmente savio, “sapiens neque iustus”. 

“Molti furono che la forza corporale e la bellezza, e certi gli ornamenti, con appetito ardentissimo disiderarono, né prima d’aver mal disiderato s’avvidero, che essi quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita cagione”.

Nella settima novella della seconda giornata del Decameron di Boccaccio, la bellissima Alatiel, figlia del sultano di Babilonia (che sta per Delta del Nilo), compie un analogo percorso denso di “prove”, prima di raggiungere il suo promesso sposo, re del Garbo (il Maghreb), attraverso molte perigliose avventure “galanti” e “conoscendo” molti uomini, i quali per lei perdono il senno e muoiono, poiché bellezza e concupiscenza sono fonti di distruzione e morte. A ogni nuova seduzione sperimenta uno sconforto, consolato dal rapporto sessuale, sufficiente a farle affrontare un’ulteriore prostrazione alla successiva lusinga erotica.

Per tutta la parte centrale del racconto, non conoscendo la lingua dei suoi amanti, Alatiel rimane muta, con quella conseguente perdita di individualità che rende più facili i rapporti carnali, e offre spunto al Logos d’incarnarsi nell’Eros; e l’Eros, come si sa, non ha bisogno di “chiacchiere”. Soltanto alla fine delle sue peripezie, riacquista la sua identità, riprendendo a parlare con gli ultimi due “Dongiovanni”, chiudendo così quel percorso circolare che riprende il classico mito del nostos (νόστος).

Il “proverbio” sulle fasi lunari: "Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna", allude a quella che sembra una strategia verbale e sessuale, allo stesso tempo, orientata, grazie alla comunicazione, al ripristino d’una rifiorita verginità d’entrambe le anatomiche coppie di labbra. Del resto, la contesa scatenata dal rapimento di Elena non si concluse con una riappacificazione immemore del tradimento, e la favola d’Apuleio non rese Cupido oggetto della smania di Psiche? “Nihil sub sole novum” (Ecclesiaste: 1, 10)!

Quanto piace al mondo è breve sogno

L’incipit del sonetto d’apertura del Canzoniere di Francesco Petrarca, con l’allocuzione: “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono” sembra contemporaneamente prefigurare la conclusione ideologica d’un’opera che vuole dimostrare di possedere ormai la consapevolezza di quanto siano illusorie le vicende ed effimeri e brevi i beni terreni. L’ultimo verso è invece più esplicito con quell’epifonema del “conoscer chiaramente”, che chiude enfaticamente un discorso che s’è fatto solenne.

All’illusione amorosa delle prime quartine fa da controcanto la disillusione delle successive terzine, alla stessa stregua di come a pietà e perdono, richiesti, corrispondono la vergogna e il pentimento, provati, in un’anastrofe che inverte l’ordine abituale, associata e seguita dal polisindeto di collegamento delle varie proposizioni tra loro, grazie a ripetute congiunzioni: “et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto, / e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente”.

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono

“Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono/ di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core/ in sul mio primo giovenile errore/ quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,/ del vario stile in ch’io piango et ragiono/ fra le vane speranze e ‘l van dolore,/ ove sia chi per prova intenda amore,/ spero trovar pietà, nonché perdono.// Ma ben veggio or sì come al popol tutto/ favola fui gran tempo, onde sovente/ di me medesmo meco mi vergogno;/ et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,/ e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente/ che quanto piace al mondo è breve sogno.”.

L’ammissione di quell’«errore» dall’equivoco significato simbolico, proveniente dal verbo latino “errare”, tra peccato e vagabondaggio (digressione e distrazione tra “tante storie”, lo slavo суета, sueta), sbaglio e divagazione, apparirebbe una sorta di confessione d’essersi incamminato sulla via del traviamento, che tuttavia vale per una strada da percorrere e un’esperienza da fare.

“Solo et pensoso i più deserti campi/ vo mesurando a passi tardi e lenti, / e gli occhi porto per fuggire intenti/ ove vestigio uman l'arena stampi…”.

Gustavo Zagrebelsky, “Qohelet. La domanda” (il Mulino, Bologna 2021) si chiede quale sia il fascino d’una retorica che ha attratto tutta un’eterogenea schiera di autori di nature morte, biblisti, poeti (Villon, Leopardi, Pascoli), scrittori (Guicciardini, Montaigne, Tolstoj), filosofi (Voltaire, Renan, Bobbio), o musicisti, come Brahms (Vier ernste Gesänge) e Schumann (per esempio: il primo dei 5 Pezzi in Stile Popolare op. 102 per violoncello e pianoforte).

Due titoli dei Lieder di Brahms furono ispirati dall’Ecclesiaste: Denn es gehet dem Menschen (Non esiste superiorità dell'uomo rispetto alle bestie, 3: 19-22), Ich wandte mich, und sahe an (… dal lato dei loro oppressori c'era la forza, ma neppure essi hanno chi li consoli, 4: 1-3).

Riferendosi alle enigmatiche note (nella configurazione S-C-H-A, As-C-H e A-S-C-H) delle tre sezioni di Sphinxes, sciolte tra le altre 22 sezioni, e un intermezzo, del Carnaval op. 9 di Robert Schumann, ne parla come di “Figure dell’ambiguità, metà animali, di solito di sesso maschile, metà esseri umani, di solito di sesso femminile; dagli occhi vuoti o dalle orbite spalancate e inespressive, in ogni caso inquietanti, magnetiche, attrattive… Ci attraggono perché ci inducono a porci domande profonde, domande che noi stessi formuliamo a noi stessi. La forza della sfinge non è in quel che dice ma, precisamente nel suo perfetto silenzio, nel vuoto che comunica e invita a riempire.”.

Proprio come s’era disposta a fare l’Alatiel della settima novella della seconda giornata del Decameron.

Le parole dell’Ecclesiaste contengono tutto lo strazio avvertito dall’impotenza, inevitabile comunque in un fallimentare tentativo di ricerca del fondamento assoluto dell’esistenza; e “il significato della vita si riduce alla disperazione del suo stesso senso”, come ammetteva il teologo Paul Johannes Tillich (1886-1965). Così l’Altissimo avrebbe creato un intero universo con il perverso scopo di non rendere possibile all’uomo di trovarvi alcuna traccia di “Lui” medesimo?

Il coraggio di continuare a vivere

Questa grande solitudine celeste, questo vuoto astrale, capaci di smarrire e atterrire chiunque, non lasciano speranza né spazio alla mediazione con una qualsiasi immagine dell’assoluto, eppure affascinano proprio per quella loro valenza perturbante e abissale, lasciando all’angoscia della fede l’ingrato compito di riuscire ad alimentare il coraggio di continuare a vivere.

Ceronetti G. (a cura di) Qohélet. Colui che prende la parola, Adelphi, Milano 2001

Ierace G. M. S. A proposito del senso della vita, https://calabriapost.net/cultura/a-proposito-del-senso-della-vita

Ierace G. M. S. Apocalittici… re-integrati, https://calabriapost.net/cultura/apocalittici-re-integrati

Zagrebelsky G. Qohelet. La domanda, il Mulino, Bologna 2021

IL PRESEPE DELLE ANIME DEL PURGATORIO

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