L’impatto ambientale del tessile, quando la moda è sostenibile…o quasi - La Nuova Ecologia

2022-07-30 14:09:55 By : Ms. Susan Feng

Anche tu vuoi mostrare il tuo interesse per un futuro sostenibile? allora rivolgiti all’industria dell’abbigliamento che lo ha ben capito e che se ti guardi attorno ti sta proponendo ovunque soluzioni che di sostenibile talvolta non hanno molto, sia come materie prime che soluzioni tecniche adottate, se non per le parole a lettere cubitali che invece sanno usare piuttosto bene per impressionare.

Abbigliamento, giaccone – ambiguità del messaggio. Questo abito è fatto con materiale biologico o riciclato? Vuole dire che usa entrambi o l’uno o l’altro?

Tuttavia, la diffusione di etichette degli abiti in mostra negli store con la parola “riciclato/reclicled” in grande e in piccolo il loro marchio, come mai prima di ora, è da tenere in debita attenzione e comunque da incoraggiare. Tecnologicamente si può fare molto di più, se non si può fare già tutto: un rifiuto tessile sia esso un materiale proveniente dal nostro guardaroba (post consumo) o da scarto dell’industria tessile, può tornare materia prima, ovvero fibra recuperabile per creare altri abiti, tessuti tecnici, anche quelli monouso e con le stesse performance.

Un valido aiuto viene dall’innovazione tecnologica, che non considera più lo scarto tessile un sottoprodotto di basso valore ma un materiale tecnico da usare in applicazioni diverse, anche speciali. La necessità di proseguire su questa strada è un obbligo morale dopo 70 anni di sogno della crescita infinita della economia e la globalizzazione. Ma essere acquirenti responsabili non è semplice quando le norme non lo permettono, quando non esistono regolamentazioni sulle definizioni certe e del valore delle parole come sostenibile, ecosostenibile, green o bio. Ad oggi chiunque le può usare non essendoci una sostenibilità assoluta nel prodotto industriale ma una “migliore” o “peggiore” impronta ambientale rispetto allo stesso prodotto realizzato con scarsa cura all’ambiente.

Alcuni dati e informazioni spiegano perché ogni piccolo passo è comunque un gesto importante

La perdita di valore di beni come gli abiti, perché “anziani”, “fuori moda”, rattoppati o consunti

MacArthur Foundation nel suo rapporto “10 circular investment opportunity” stima in oltre 500 miliardi di dollari la perdita annuale di valore di beni comprati a “tot” e buttati per le cause diverse, pagando pure per il loro ritiro e smaltimento. Valore caricato da enormi emissioni di energia (il ciclo tessile è energivoro), utilizzo di materie prime non riproducibili come il petrolio e in alcuni casi purtroppo anche lo sfruttamento di manodopera minorile, buttando in mare gli scarti, creando microplastiche, utilizzando navi portacontainer o petroliere ad altissimo tasso di inquinamento, ma anche producendo più fibre (soprattutto plastiche) di quanto necessiti la domanda, che viene così stimolata sul prezzo e non sulle prestazioni, e in parte finisce a essere riciclata ancora prima dell’uso.

Cartellino realizzato nel rispetto dell’ambiente (tag) ovvero realizzato con materiali biodegradabili ma è una autodichiarazione perché non c’è da nessuna certificazione o test di biodegradabilità che lo dimostra.

La produzione di nuove fibre ogni anno è di 110 miliardi di kg, come si può leggere in questa statistica: https://textileexchange.org/2020-preferred-fiber-and-materials-market-report-pfmr-released-2/ Per dare un’idea delle dimensioni della massa di fibra: 1 mt3 di fibra si può calcolare in 15 kg/mt3 – quindi si deve considerare una montagna di fibre  di 1 ettaro2 (2.200 km) ovvero un ponte fino alla luna (ogni anno). il 62% sono fibre sintetiche derivate da petrolio come poliestere (pet) e polipropilene (pp) il cotone rappresenta solo il 25% il resto sono altre fibre tecniche, ma anche artificiali come viscosa, la lana l’1% ecc. Il cotone industriale (cioè non biologico) è sotto inchiesta per l’uso massiccio di semi geneticamente modificati, per l’uso smodato di acqua nella fase di coltivazione ma anche erbicidi e pesticidi come glisolfato. Il consumo di acqua nel processo tessile vero e proprio grazie a tecnologie di recupero e riciclo di materie prime è in diminuzione ma è soprattutto appena avviato un processo di recupero di cotone rigenerato grazie a nuove tecnologie e al genio italiano. Due esempi clamorosi di spreco di risorse a causa della mancanza di analisi del ciclo vitale di un prodotto o processo (anche se l’economia circolare non è invenzione recente da parte degli scienziati): in Russia e Uzbekistan sono riusciti a seccare un lago gigante come quello di Aral; in Siria dove si produceva un eccellente cotone sono riusciti a seccare le fonti fossili in 20 anni di prelievi sconsiderati dal sottosuolo desertico, bruciano il suolo e l’economica della popolazione è ora deserta come il loro habitat.

Negli ultimi 20 anni non solo è decuplicato il consumo mondiale di poliestere (pet) ma è passato di fatto da uso come “fibra tecnica” (ultraleggera per abbigliamento sportivo) a fibra di massa a “basso costo”, la più economica del mercato perché inferiore anche del 50% del cotone  e delle fibre “naturali”.  Spesso essa è promossa ancora come fibre prestazionale – nella comunicazione dei brands – senza esserlo affatto per le applicazioni proposte anzi creando problemi come le microplastiche che dalle nostre lavatrici arrivano dentro gli organi dei pesci. È il risultato della approssimazione tecnologica e della mancanza di visone circolare sul fine vita e dove il design e la comunicazione (il vero costo di un abito assieme al profitto) illudono, confondono lei idee, distraggono dal contenuto. È anche vero che per esempio l’incremento della produzione della lana oggi ridotta all’1% della produzione mondiale di fibre, sarebbe un problema se fosse maggiore per l’abilità delle pecore di produrre abbondante massa di CO4 dalla digestione e per le necessità di acqua del processo tessile. (vedi fotografia ingrandita al microscopio dove si vede le parti che si staccano) ma la lana è rigenerata da oltre 100 anni nel distretto pratese per esempio per fare anche capi di Alta Moda ma non si diceva, per non sembrare un sottoprodotto all’acquirente. 

Rappresenta circa il 14% (dato edana.com) del mercato delle fibre. È quello però dove la dispersione di materiale è più elevata. Lo gettiamo a terra pensando sia come carta che sparisca al più presto dalla vista (ma non lo fa), lo usiamo per i bambini piuttosto che per il ciclo mestruale, ci puliamo la bocca al ristorante, ci salva dalla contaminazione batterica/virale in bocca, evita che il polline ci infili nel naso in auto assieme ai residui di combustione dei carburanti. Un mondo fatto di fibre che è più invasivo di quanto siamo abituati a pensare e per applicazioni non sempre necessarie anzi spesso assolutamente inutili o rimpiazzabili da altre più efficienti. L’idea che una salvietta costi poco da poterla buttare in terra o nel water danneggia il prossimo oltre a noi stessi. Sono prodotti nel mondo 11 miliardi di metri di tessuti-non-tessuti per monouso ogni anno. Un pacchetto di 60 salviette nel contiene 1,5 mt2 di fibre spesso mix con rayon o cotone e poliestere che non biodegrada e il peso dell’acqua è pari a quello delle fibre.

In conclusione, non è l’industria tessile mondiale il problema: fa ciò che il mercato chiede (una volta stimolato). Il problema lo è nel consumo smodato, spesso uno sfogo più che una necessità, un massaggio dell’anima più che l’acquisto di un bene di valore costato fatica alla natura per produrlo.

Non vuol dire non comprare più ma avere coscienza del gesto. Il resto ci penserà il mercato a ri-equilibrarsi come è nella legge della libera economia che, volente o no, non può che avere oggi più che mai una visione circolare per sopravvivere. Grazie alla nostra coerenza.

© La Nuova Ecologia 2020 lanuovaecologia.it è l’edizione digitale del mensile cartaceo la Nuova Ecologia (art. 3 c. 2 Decreto legge 18 maggio 2012 n. 63 convertito con modificazioni nella legge 16 luglio 2012 n. 103), "Nuova Ecologia (www.lanuovaecologia.it) è un periodico che ha percepito (già legge 7 agosto 1990 n. 250) e percepisce unicamente i contributi pubblici all’editoria (legge 26 ottobre 2016 n. 198, d.lvo 15 maggio 2017 n. 70) registrata al Registro della Stampa del Tribunale di Roma n. 543/1988 - dir. resp.: Francesco Loiacono - Editoriale la Nuova Ecologia soc. coop. via Salaria n. 403 Roma - n. ROC 3648 P.Iva 04937721001

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EDITORIALE LA NUOVA ECOLOGIA è una società cooperativa senza fini di lucro, costituita nel 1995 su impulso di Legambiente per la pubblicazione delle riviste di riferimento dell'associazione e l'ideazione di numerose altre iniziative ad esse collegate.

E’ nata e opera nella convinzione che l’informazione, la formazione e la comunicazione ambientali siano strumenti fondamentali nella politica dello sviluppo sostenibile.

Oltre alla prevalente attività editoriale, organizza convegni e seminari, corsi di giornalismo e di comunicazione. Alla base del lavoro svolto c’è un costante impegno alla tutela e valorizzazione di principi etici nei rapporti economici e sociali.

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